L’intervista: Favrizio Tavernelli, “HOMO DISTOPIENS” il nuovo album, prezioso nei testi e profondo nella musica

Da tempo vive  a Correggio, nel reggiano, già terra natale di tanti artisti, non da ultimo, com’è ormai noto, a Luciano Ligabue. Ci siamo conosciuti qualche anno fa, in un due occasioni. La prima relativa ad uno dei suoi progetti ‘Impresa Gottardo’ e la seconda per una sua nuova produzione musicale “Infanti”, che ad oggi nuova non lo è più visto l’uscita recente della sua ultima ‘creatura’ “Homo Distopiens”.

 Una produzione che ha soddisfatto ogni aspettativa. Dopo aver ascoltato il precedente “Infanti“, centellinandolo traccia dopo traccia, mi sono posta all’ascolto di questo nuovo album con la curiosità di scoprire se quel preziosismo di parole e musica si sarebbe replicato, se io, ascoltandolo avrei provato le stesse emozioni. Ed è stato proprio così. Il dato di fatto è che ci si trova di fronte ad un prodotto intellettualmente elevato, dove ogni parole è giusta e dove l’armonia completa l’affresco. E ascoltare la musica di Fabrizio Tavernelli è proprio come andare a visitare una galleria d’arte, dove è necessario soffermarsi per capire e assaporarne appieno le qualità oltre che il messaggio. 12 tracce e un packaging raffinato.

E al suo arco anche ironia ed estremo eclettismo come lui stesso ha confermato

“Eclettismo nella musica, eclettismo nei diversi linguaggi e discipline, eclettismo negli stili, tanto che negli anni in cui ho fatto musica ho attraversato generi, formule , approcci, tecniche. Dal punk-new-no-wave-postpunk passando per psichedelia, acid folk, avant rock, kraut, elettronica, pop, etnica, crossover, mimimal music, italo disco, sperimentazione, colto e popolare… insomma un bel guazzabuglio documentato nelle varie esperienze di gruppo o soliste. En Manque D’Autre, Acid Folk Alleanza /AFA(band di culto di quell’epoca ricchissima per la musica indipendente italiana negli anni ’90), Groove Safari , Roots Connection , Duozero , Ajello , Babel, IRRS, Impresa Gottardo… sono sigle, progetti di gruppo e avventure in cui è possibile recuperare tasselli che compongono un mosaico unico. A volte ho preferito tradire e tradirmi che fare un disco uguale all’altro. Oggi ho concentrato il tutto negli album a mio nome: “Oggetti del Desiderio“, “Volare Basso”, “Fantacoscienza”, “Infanti”

E oggi “Homo Distopiens”. Intanto, giusto per gradire, chiariamo il significato di ‘distopia‘  che come leggo e riporto quasi testualmente ” La distopìa, o anche antiutopia, pseudo-utopia, utopia negativa o cacotopia è una descrizione o rappresentazione di uno stato futuro di cose che, in contrapposizione all’utopia, presenta situazioni e sviluppi sociali, politici e tecnologici altamente negativi. In genere indica un’ipotetica società (spesso collocata nel futuro) nella quale alcune tendenze sociali, politiche e tecnologiche percepite come negative o pericolose sono portate al loro limite estremo”

L’uscita dell’album è stata accompagnata da una vera ovazione sui social, ma l’aspetto più esaltante è che ogni commento, ogni attestato di gradimento, non si è dimostrato essere un semplice e ormai ossessionante ‘Mi Piace’. Ogni commento è stata una piccola recensione. Tra tutte ho scelto di inserire quella di Federico a cui Fabrizio ha risposto “Questa la considero la prima recensione del nuovo album e credo che sia chirurgica da un lato ed estasiante dall’altro”

Homo Distopiens – ha scritto Federico – è un’opera d’arte sopraffina. È un disco meraviglioso di musica totale. Oggi ti direi che è il tuo disco più bello in assoluto. Se non ti offendi, più che il capitolo successivo di Infanti (che resta un gran disco!) mi sembra il nuovo e definitivo disco degli Afa. Tralasciando questo… Homo Distopiens tocca vette altissime, lo metto accanto ai mostri sacri. Per ciò che possono valere ti faccio i miei più sinceri complimenti per la tua visione musicale e per la qualità lirica. Restano canzoni ma le sento con una connotazione da capitoli di un’opera. Arrangiamenti e suoni sono di livello assoluto, tutto è cesellato a meraviglia.”

E il profilo facebook di Tavernelli trabocca di questi attestati di stima.

Per quanto riguarda MusicaRibelleilblog, via libera all’intervista:

Ti definisci eclettico e non posso che sostenerlo una volta di più visto che anche il tono della tua voce risulta essere diverso dall’album precedente tanto che sono dovuta tornare ad ascoltare Infanti. E’ solo una mia impressione?

Non è una tua impressione. Da sempre cerco di non ripetermi e avventurarmi in territori inesplorati. E’ sempre stata la curiosità e la voglia di sperimentare a guidarmi, tanto che spesso ho spiazzato i miei stessi ascoltatori, vedo la musica come un percorso che ha diramazioni, vie parallele, strade accidentate, rischi, burroni, attraversamenti. Non ho mai cercato scorciatoie, anche se è più faticoso. Quello che dici sulla voce è reale, essendo il mio primo strumento, il mezzo principale di comunicazione, è proprio sulla voce che si concentrano e si esprimono tutte le sensazioni, le atmosfere, l’animo di un brano o di un album intero. Penso che il musicista, il cantante, debba essere una spugna che si nutre di quello che vive, che vede, che immagina o trasfigura. La voce in “Homo Distopiens” non poteva che essere più scura, densa, quasi sacrale con momenti di deriva nella paura, nella follia, nel terrore di un futuro che non c’è più.

Quale è stata l’idea ispiratrice di questo album?

Prima c’è un gioco di parole tra l’homo sapiens da cui veniamo e una nuova era oscura dove è sparita ogni utopia sostituita dal suo contrario ovvero la distopia in cui vive la nuova specie umana dell’homo distopiens. Il tutto parte dalla constatazione che stiamo vivendo in una era distopica. Avevamo immaginato un futuro migliore, più giusto, armonico, di prosperità per l’umanità e il pianeta ma invece quello a cui assistiamo è un collassare della realtà su stessa, una possibilità di estinzione della nostra specie, la possibile fine di questo pianeta. Ci ritroviamo in uno stato d’animo inquieto e ansioso come se fossimo in attesa di un cataclisma, di una pandemia, di una invasione aliena, di una apocalisse. Sono immagini, concetti, visioni che avevamo conosciuto soltanto attraverso film, romanzi, serie fantascientifiche-catastrofiste-dark. Ora siamo intenti a scrivere, sceneggiare, comporre la contemporaneità mentre si dissolve.

I tuoi testi sono sempre stati impegnativi, densi di richiami alla realtà tradotti musicalmente attraverso sonorità mai scontate. Il tuo nuovo “Homo Distopienssembra addirittura profetico. Te ne sei reso conto?

Assolutamente sì, bastava annusare l’aria intorno. Rimango io stesso sconvolto dai miei testi, dalle mie stesse parole che assumono di giorno in giorno, nuovi significati, messaggi premonitori, rivelazioni di quello che stiamo vivendo in questi giorni. Dall’emergenza climatica, al coronavirus che ci ha scaraventato in una fiction dove siamo noi gli interpreti. Tutti mi stanno facendo notare questo aspetto profetico dell’album e io spesso rispondo scherzando che ho fatto la mossa di marketing definitivo! L’artista, il musicista, lo scrittore dovrebbe avere la sensibilità di percepire cosa si sta muovendo sotto al mondo, dovrebbe aprire squarci nelle diverse realtà, tieni conto che all’album ho iniziato a lavorarci due anni fa. Non sono un veggente (credo…ah ah ah) ma nel frattempo ho letto saggi e romanzi , ho studiato teorie e filosofie, ho visto e rivisto film, serie televisive e notavo che tutto tendeva all’oscuro, alla paranoia, al lato più inquieto dell’esistere, in definitiva alla distopia. Ma soprattutto ho osservato, sono andato a ricercare i segni e i segnali di questa implosione e entropia del mondo, nel quotidiano che mi appare sempre più assurdo. Non voglio apparire un pessimista inguaribile, in fondo cerco sempre una possibilità, uno spiraglio, una reazione ma mi fanno paura gli inconsapevoli, quelli che si vanno a stampare con il sorriso idiota, gli ottimisti che poi diventano isterici tutto a un tratto quando la realtà si presenta nella sua immanenza. Ho buttato fuori le mie paure, le ansie, le domande, oggi mi ritrovo tra le mani un album che sì è la colonna sonora e il documento di questi giorni.

Cosa ti spaventa di più del presente?

Quello che mi spaventa di più è che in una realtà sempre più interconnessa, ipercinetica, sommersa dall’overdose di informazioni non riusciamo più a distinguere il vero dal falso, non riusciamo più a distinguere passato-presente-futuro e che anzi il futuro è scomparso dai nostri orizzonti, quello che rimane è un fascino retro di un futuro che non esiste e che non sarà mai. Sono spaventato per le nuove generazioni, per i nostri bambini e ragazzi che ora sono costretti alla segregazione, sono spaventato per le guerre sempre più vicine (e di questo ne avevo già scritto in Infanti) sono sbattuto in mezzo alla manipolazione dei media e soprattutto mi chiedo sempre di più chi ha scritto la sceneggiatura di questo mondo indecifrabile, mi rattristo per ogni specie che si estingue di giorno in giorno, per le foreste che vanno in fiamme, per il riscaldamento globale, per il mondo nelle mani di uomini che non hanno nessuna utopia o desiderio di salvezza.

Raccontami del tuo gruppo di lavoro. E’ lo stesso di sempre

Sì, ormai è il quinto album che costruisco con gli stessi musicisti. Lorenzo Lusvardi, Marco Santarello, Alessandro De Nito, Marco Tirelli a cui si aggiungono ospiti di lavoro in lavoro. Per esempio in quest’ultimo si sono aggiunti gli archi di Osvaldo Loi, i drones di Antonio Tonietti, i cori polifonici della Cappella Musicale San Francesca da Paola diretti da Silvia Perucchetti, la tromba di Simone Copellini con il quale ho scritto la suggestiva e cosmica suite di “Oumuamua”. A tutti ho chiesto uno sforzo ulteriore per entrare dentro al concept, debbo dire che quello che mi girava in testa è stato applicato nel migliore dei modi e il feeling che si è instaurato con tutti i collaboratori ha reso davvero denso e prezioso il disco.

E’ un album, come ti dicevo che evoca, pur dispensando parole e pensieri a tratti anche crudi. Addirittura la traccia 6 è mistica e lo sarebbe totalmente se non avessi scelto di interrompere il ‘cerchio’ utilizzando il suono di una tromba. Ho percepito bene oppure ci sono altre intenzioni dietro?

Evocativo è una giusta definizione , mistico anche, speculativo,onirico se vuoi.  

Tornando a “Oumuamua” che è una traccia emblematica che esplora quello che ci arriva dall’universo, dove la l’astronomia, la fisica, si mescola al sovrannaturale, dove ad ogni nuova scoperta ci dimostra che siamo fatti della stessa polvere cosmica dell’universo. In fondo i nostri occhi sono sempre stati rivolti al cielo aspettando segnali dagli elementi, dagli dei, dalle costellazioni, dall’arrivo degli alieni, dal possibile schianto di asteroidi. Oumuamua è il nome dato a un corpo celeste avvistato qualche anno fa da un osservatorio astromonico situato nelle Hawai (per questo il nome in lingua hawaiana e il significato di “messaggero che viene da lontano”), secondo gli studiosi la traiettoria inusuale di questo oggetto farebbe pensare a una sonda spaziale aliena che avrebbe deviato prima di entrare nell’orbita terrestre. Musicalmente questo brano è stata una bella scommessa ma grazie a Simone, Silvia e il coro, il risultato è davvero suggestivo e estatico: Ligeti, 2001 Odissea nello Spazio, Morricone, Arvo Part, sono rimandi possibili ma in definitiva ne è uscita una cosa davvero personale.

E come sempre mi sembra abbia la consistenza di un Concept, un brano richiama all’altro, in un’armonia compatta. E’ così?

Ho spesso ragionato sui miei progetti come concept, cioè che un album non fosse solo una raccolta di brani ma ci fosse un filo comune, una narrazione, una mappa da scoprire. Forse il mio primo concept è stato “Nomade Psichico” degli AFA del 1996 e in un certo modo quel disco è legato a “Homo Distopiens” che è l’ultimo concept. Entrambi i lavori sono legati da una ricerca musicale-letteraria. Il periodo è però diverso e i due momenti sociali diversi. “Nomade Psichico” uscito a metà anni novanta era fortemente influenzato dalla cyberculture, dall’espansione della rete, dalle manipolazioni genetiche, da nuove forme di espansione delle potenzialità cerebrale, imbevuto musicalmente di nuova elettronica, campionamenti, nuova psichedelia, trance, arcaicità e futurabilità. In un certo modo c’era ancora una visione, una tensione verso un futuro. “Homo Distopiens” arriva in un periodo totalmente diverso e le possibilità di fine millenio relative a un uso virtuoso delle tecnologie, della rete, si sono invece tramutate in un incubo cospirazionista. La dittatura tecnocratica si è trasformata in un incubo irrazionale dove l’alta finanza è ormai una delirante setta religiosa e la tecnologia della rete ci ha mostrato una nuova era oscura. Dopo l’Antropocene rimarrano solo le specie capaci di sopravvivere in condizioni di vita estreme, ci saranno mutazioni, ritorneranno virus rimasti congelati per millenni, forse rimarranno solo le macchine, i robot che già stanno sostituendo gli umani in un mondo governato dagli algoritmi. 

A proposito hai utilizzato la piattaforma del crowdfunding anche per questo novo album?

 Continuo a pensare che il crowdfunding sia un buon mezzo per continuare a fare dischi per chi non ha dietro grandi strutture, tra l’altro ormai sono pochi gli artisti che possono garantirsi la copertura di tutti i costi di una produzione discografica. Negli anni si è consolidato un nucleo di ascoltatori, amici, fans, curiosi, esploratori, avanguardisti popolari, che mi seguono con affetto e ben disposti ad accettare ogni volta qualche sorpresa, nuove sfide, azzardi. Questo coinvolgimento diretto di chi sostiene il tuo lavoro è fondamentale, vitale e mi fa continuare a fare musica nonostante tutto. E’ una missione!

C’è anche altro che in questo poco più di un anno è accaduto e che ti ha regalato delle soddisfazioni?

Prima e dopo l’ultimo album ci sono state diverse uscite e collaborazioni, progetti parallelli. Mi ha fatto piacere che brani dei primi anni ottanta dei miei primi gruppi Dark Age e En Manque D’Autre siano stati inclusi in una interessante compilation sulla scena underground emiliana. Sono soddisfatto di due inediti realizzati per tributi a artisti che amo, il primo uscito l’anno scorso dedicato a Nick Drake (il brano “Sulla Luna Rosa” nel libro-CD “Il delicato mondo di Nick Drake”) il secondo in uscita a breve dedicato a Ian Curtis dei Joy Division (“Dissezionami” nel libro-CD “Nessun perduto Amore”) segnalo poi un altro inedito “Insonui” nel progetto sugli Acufeni “Tinnitus Tales” delle Forbici di Manitù. Ho collaborato come cantante negli album di Roseluxx, Isolaris, Pacosound. Ho avuto spazio nel progetto “Solchi sperimentali Italia” (libro, cd , dvd) trovandomi a fianco di storici sperimentatori italiani. Infine non dimenticando il mio lato più pop-trash-edonista continua a fare uscire cose come Impresa Gottardo con il mio socio Jean Paul Lazare (l’ultimo è un EP per l’etichetta di San Pietroburgo Soviett Records).

Cos’è per te la musica?

E’ un tutt’uno con la vita, uno spazio vitale, il mio modo di stare nel modo, di osservarlo, di leggerlo, decodificarlo, non riuscirei a vivere, esistere senza. Spero di invecchiarci insieme.

E pensi ti soddisferebbe se fosse la sola tua professione? Oppure ha la sua forza proprio perché continua ad essere una ‘vita parallela’?

 E’ tanto che suono, scrivo, invento, creo, cado, mi rialzo, centro, sbaglio, ipotizzo, mi deludo, mi arrabbio, spero, mi spacco testa e schiena. A volte credo che potrei riavere di più indietro, a volte penso che meriterei più attenzioni, sempre mi esalto per il minimo ritorno di energia, stima, apprezzamenti. Ho pensato spesso di farne una professione, ci ho provato, con gli AFA ho vissuto una decina di anni in cui tutto sembrava possibile, si viveva solo di quello girando a suonare per la penisola e oltre confine. Dopo gli AFA ho provato a fare cose più pop o dance (Groove Safari, Ajello, Babel) ma piano piano maturavo l’idea di fare della mia vita, delle mie canzoni, un manifesto dell’esistere. Sono diventato padre, la musica ha subito crisi, i format e i talent sono diventati gli unici spazi di promozione capaci di fagocitare giovani artisti di stagione in stagione, gli spazi live sono stati occupati da tribute e cover band. Insomma la musica non bastava per mangiare o pagare bollette e affitto. Oggi ho trovato un compromesso tra un lavoro socialmente ammissibile e la musica, potrebbe essere faticoso fare convivere le due dimensioni ma in verità sono riuscito a volgere a mio favore questa dimensione binaria e così l’ambiente di lavoro è diventato assai ispirativo per i miei dischi, un catalizzatore di idee, un osservatorio antropologico- sociologico privilegiato.

…. anche questa è libera

Stiamo vivendo uno snodo cruciale in cui si gioca la nostra stessa sopravvivenza, è un periodo terribile e affascinante allo stesso tempo. Dobbiamo averne coscienza